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Il baule nel solaio

Si chiude un cerchio lungo 44 anni…
Un viaggio di ritorno per proseguire il cammino.
https://www.amazon.it/dp/B0BPGSVFDL

Man mano che maturava…l’idea di ritrovare, riscoprire e raccogliere tutto ciò che avevo scritto (o scarabocchiato) dal 1979 ad oggi – non ho infatti ritrovato cose scritte o abbozzate prima di tale anno, anche se da qualche recondita parte deve pur esserci – l’idea di non scartare nulla di ciò che trovavo (e tantomeno di correggerla, rielabolarla o riscriverla del tutto) si faceva sempre più piede e ne è nato fuori questo libro

Il coraggio e le sfide

Una lirica che parla del coraggio…non ci si deve mai tirare indietro, anzi, è meglio osare.

Da: “La notte e il pettirosso” (2021)

L’ALTALENA

Se hai deciso di salire sull’altalena

devi accettare il dondolio delle corde.

Non puoi pretendere l’immoto spazio

nel turbinio delle onde e il degradare

del vento nel cuore dell’uragano.

Ti ha insegnato il falegname

a smussare gli angoli dello scafo

e il padre a reggerti sul seggiolino.

Quando ti accingerai al salto

ricordati di fare la capriola.

Una poesia che ho scritto…rileggendo Ghiannis

Ghiannis Ritsos | Laboratori Poesia

ARRIVEDERCI

Tornando a casa da Monemvasià
L’odore dei narcisi mi pervadeva le narici, il petto
E la punta degli zoccoli.
Il vecchio amico mi salutava da lontano
Mostrando i suoi denti gialli – aperti –
E i capelli bianchi appena mossi dal vento.
Gli invidiosi con i loro lunghi coltelli non si vedevano.
Erano tutti morti.
Persino l’odore acre delle loro carcasse era scomparso
Cancellato dal profumo della brezza mattutina
E dal sentore del pesce fresco venduto al mercato.

M.B.
27 dicembre 2020

L’ispirazione poetica trae spunto pressochè sempre dalle piccole cose; in questo caso mi è bastato immaginare, mentre leggevo un brano da: “Molto tardi nella notte”, ultima raccolta di Ritsos pubblicata postuma, di essere stato a Monemvasià, sua città natale. Un piccolo, semplice omaggio doveroso.

Una poesia che avrei voluto scrivere: “Un seme fra le mani” (Giancarlo Baroni) – di Mauro De Maria.

Un seme fra le mani

Ti seppelliamo con un seme fra le mani

spunta dal suolo germoglia cresce

ti fa ombra d’estate

le foglie ti coprono in autunno

lo battezziamo col tuo nome gli parliamo.

Questa è la poesia che conclude l’omonima sezione dell’ultimo lavoro poetico di Giancarlo Baroni (“I nomi delle cose” puntoeacapo editrice, 2020)

L’autore (unitamente all’altra grande passione artistica cui si dedica, la fotografia) da anni porta avanti il suo messaggio poetico delicato e suadente; i suoi versi paiono integrarsi con la quotidianità degli eventi di cui sa cogliere spesso gli elementi taciuti e sotterranei, qualità che è certamente consona alla scrittura poetica e ne costituisce una peculiarità.

Baroni ama spaziare fra quadri naturali, spesso legati a vissuto e luoghi personali, così come dare voce a figure storiche note o anonime che rivivono gli eventi in prima persona, spesso portando alla luce inediti tagli di lettura; quella delicatezza di linguaggio citata, la leggerezza di parole che facilitano la comunione col lettore divengono una sorta di scandaglio che mentre sprofonda in spazi e tempi privati o pubblici trascina e rende partecipe dei testi chi vi s’immerge.

La poesia qui proposta è inserita, come accennato, in una breve sezione dedicata al tema della morte, o meglio del passaggio fra la vita e un’altra forma di esistenza; si tratta, naturalmente, di un argomento fra i più praticati dai poeti, affascinati dall’insondabilità di un mondo ultraterreno che in qualche modo, anziché annullarla, prolunga la vita oltre il suo limite naturale, secondo la straordinaria (al solito) intuizione di Brodskij, autore amato anche dal nostro, per cui l’arte non imita la vita, ma la morte ossia “la più lunga versione possibile del tempo”. In questi versi molto belli l’autore pare amplificare la possibilità d’una nuova esistenza; sceglie una forma di rinascita simboleggiata dal seme sepolto e pare cogliere l’eco di parole evangeliche secondo cui solo il seme che sprofonda nella terra darà frutto e non sarà disperso al vento; ecco dunque che la scelta consapevole di chi resta, il gesto pensato e attuato perché l’unione non si spezzi raggiunge il suo scopo e nell’amata integrazione con la natura, che il poeta da sempre persegue, si realizza in poesia la fusione di vite diverse e partecipi, il flusso circolare della rinascita.

Una poesia che avrei voluto scrivere: “Punta secca” (Corrado Govoni)

Punta secca

Sei magra e lunga
eppure hai tanta forza plastica
nel corpo gentile
che se abbandoni i gomiti sul pozzo
o contro il muro
del cortile
il bel corpo rovescio
serrati gli occhi
strette le labbra sciolti i ginocchi
con quell’uncino di ricci
nel mezzo della fronte e ad un capriccio
improvviso ti distacchi
t’impenni e via saetti come da fionda
su quegli alti tuoi tacchi
di stella che nel sole
quasi non ti si vede
più tanto sei bionda;
si può giurar per certo
che tu con quel tuo premer duro
un incavo hai aperto
 nel docile marmo e nel muro.
Attacchi d’ali strappate
ti palpitan le reni;
così sottile e senza seni
li hai tutti nei ginocchi.
Ma l’orchidea tu l’hai negli occhi.

L’esordio poetico di Corrado Govoni è folgorante: nel 1903, a 19 anni, pubblica la raccolta “Le Fiale” seguita dopo pochi mesi da “Armonia in grigio et in silenzio”; è l’inizio di una convivenza coi versi che, pur attraversando diverse stagioni stilistiche a cui il poeta aderirà, manterrà sempre come elemento portante il culto della parola secondo una sua stessa definizione di poesia: “sentimento espresso con parole calde, fantastiche, colorate, musicali”. Il suo lessico ricercatissimo, soprattutto nella sua prima stagione produttiva che lui stesso riassumerà curando l’antologia “Poesie scelte” (1918), straripa nella sovrapposizione d’immagini, in una sorta di accumulazione progressiva e ridondante comunque in grado di portare in risonanza le emozioni, come fossero corde d’uno strumento e sfruttando fonti d’ogni tipo: “una carovana che porta indifferentemente materiali rari e preziosi e oggetti comuni e banali o fin di scarto” dirà Sinisgalli. Tale analisi è avvalorata dalla grande influenza esercitata dalla ricchezza delle immagini di Govoni su diversi poeti del novecento, anche quelli destinati a divenire maestri riconosciuti, quali Ungaretti e Montale (bastino a scopo dimostrativo della sua capacità evocativa un paio d’impressioni primaverili: “le rondini turbinavan come spole/ canore pel telaio grande dell’azzurro” o ancora “le rondini sui fili come note nel rigo”).

Nel tempo la sua ricerca metrica lo ha portato ad allontanarsi dalle forme chiuse dei primi lavori per sperimentare la stagione futurista e, fra i primi, il verso libero, sfrondando successivamente i testi e comunque recuperando un’impostazione nel solco della tradizione classica che non ha mai abbandonato.

“Punta secca” è una poesia inserita nella raccolta “Canzoni a bocca chiusa” del 1938.

Il verso si frammenta e il lessico diviene più immediato, il ritratto della protagonista del testo è costruito attraverso una cadenza ritmica e musicale che riflette la ricerca stilistica del poeta e, anche in tal caso, la sua tipica predilezione per  la progressiva sovrapposizione d’immagini; ma ancora più raffinata, con frenate e apparenti ristagni di suono che si schiudono in improvvise ripartenze. L’intera prima parte del testo consta di un unico periodo che, tramite i cambi ritmici citati, lascia il lettore col fiato sospeso attraendolo in un vortice fino al punto fermo; e qui si scioglie la forza creativa di Govoni, nell’immagine del muro modellato e scavato dal semplice gesto della donna che vi appoggia i gomiti.

Ma forse l’esercizio sistematico alla scrittura che per anni il poeta ha praticato ha generato nel testo un’incrinatura imprevista: la parte finale pare un poco forzata e allenta la tensione emotiva crescente fino al punto che chiude il primo periodo; questa scelta che tende a riportare a terra il testo non mina comunque la luce emotiva che, nel complesso, lo pervade, velandolo d’una sotterranea malinconia e in tal senso facendo eco a ciò che Betocchi scrisse parlando dei versi di questo autore, trovando sempre in Govoni il “rimpianto di una felicità dalla quale si sente escluso”.

                                                                          (Mauro De Maria)

Una poesia che avrei voluto scrivere: “Mòl” [“Bagnato”] di Raffaello Baldini

Mòl

E par la strèda u s’è nuvlé, a San Bèrtal

l’à tach a pióv, pedèla po’, i calzéun,

ch’a n gn’éva péns, sl’untómm, ma la cadéina,

a m séra sasiné,

e mòl pléin, i cavéll, a la sintéva

culè zo ma la còppa, e la caméisa

sla pèla, giaza,

me Pòzz Lòngh a so smòunt, andéva so

a testa basa, agrapèd me manubrio,

tra ’l piscòlli, e una mèlta,

mo butéi un pó ’d brèssa d’ogni tènt!

a biastméva, ò alzè i ócc, e ò vést se grèpp

dla Nina ad Scòcia, sòtta l’aqua, al stéva

alè arguglédi, dal pigri, tl’érba, férmi, cmè di sas

Bagnato

                          E per la strada s’è annuvolato, a San Bartolo

                          ha cominciato a piovere, pedala pure, i calzoni,

                          che non ci avevo pensato, con l’unto, alla catena,

                          mi ero rovinato,

                          e mollo fradicio, i capelli, la sentivo

                          colar giù alla nuca, e la camicia

                          sulla pelle, ghiaccia,

                          al Pozzo Lungo sono sceso, andavo su

                          a testa bassa, aggrappato al manubrio,

                          tra le pozzanghere, e un fango,

                          ma buttateci un po’ di ghiaia ogni tanto!

                          bestemmiavo, ho alzato gli occhi, e ho visto sul greppo

                          della Nina di Scòcia, sotto l’acqua, stavano

                          lí accoccolate,

                          delle pecore, nell’erba, ferme, come dei sassi.

                                                    (versione in lingua dell’autore)

Raffaello Baldini, con  Tonino Guerra e Nino Pedretti, completa la triade di grandi poeti dialettali nati negli anni venti del secolo scorso a Sant’Arcangelo di Romagna; e ne è il vertice assoluto. Diverse sono ormai le testimonianze in tal senso tendenti anche a sovvertire il pregiudizio d’una poesia minore se al posto della lingua si predilige il dialetto; spesso gli autori che scelgono tale forma espressiva utilizzano un idioma molto circoscritto, legato alle proprie radici ma è come se, nelle progressive  varianti che mano a mano che ci si allontana dalla terra d’origine di quel linguaggio si diversificano poco a poco, questo inglobasse luoghi e tempi limitrofi e via via più lontani a costituire un discorso comune e universale. Nel caso di Baldini è evidente che la tipologia linguistica, oltre a costituire una sorta di connessione più diretta coi personaggi comuni che abitano i suoi versi, è anche un elemento non solo di preservazione della memoria, come semplicisticamente potrebbe sembrare a leggere le sue dichiarazioni, ma anche di precisione percettiva e divulgativa: “ancora qualche decennio fa il dialetto del mio paese non aveva i nomi per indicare due stagioni, la primavera e l’autunno. La primavera  era “la stasòun bóna”, la stagione buona, l’autunno era “la rinfrischèda”, la rinfrescata, o anche “pr’e’frèsch”, per il fresco.

Oggi che si può dire “primavera” e “autónn”, il dialetto, paradossalmente, è un po’ più povero”. Tale esattezza descrittiva, secondo una felice intuizione di Mengaldo,

visualizza “la realtà di un luogo in un tempo preciso (che sembra contenere in sé naturalmente il passato)”.

La poesia di Baldini tende ad esulare dall’ambito più tipicamente connesso ai versi dialettali ove predominano quadri descrittivi, fotografici che tendono a fermare l’immagine con un effetto nostalgico protettivo; nel suo caso tali elementi, pur presenti, investono l’attualità e spesso rivelano il volto nascosto ed intimo di cose e persone. Nei testi, in netta prevalenza sotto forma di monologhi recitati da persone reali o immaginarie, non solo l’io parlante diviene il poeta stesso ma anche ognuno di noi: nelle debolezze, nelle idiosincrasie, negli errori commessi, nei desideri rimasti inespressi, nelle occasioni perdute, nei silenzi che predominano sui chiarimenti e in molto altro ancora tutti siamo ritratti e ci riconosciamo. “Protagonista delle storie di Baldini […] è una figura assolutamente comune, spesso perfettamente socializzata: uno come tanti, apparentemente normale, che solo nel privato paga il suo tributo di fissazioni” dice Brevini nella prefazione di “Furistír”, il libro da cui è tratta la poesia proposta; ma tale privato si riversa, paradossalmente, dalla voce interiore a quella espressa sulla carta rendendo manifesto anche ciò che forse non si vorrebbe. Il titolo della raccolta citata evidenzia, inoltre, una delle tematiche più tipiche e care al poeta: la condizione di estraneità dell’individuo al mondo, altrui e proprio, che al contempo ritrae con una precisione senza uguali.

Anche nella poesia scelta per questa lettura, in linea con il costante approccio stilistico dell’autore che usa il verso libero, predominano gli endecasillabi. È stato più volte notato che la sua metrica, libera ma appunto ricercata e precisa, svolge una sorta di funzione di contrappeso della sintassi sovrabbondante e caotica che dà voce ai suoi personaggi; a volte pare che la rima venga volontariamente evitata, ma il lavoro sul verso crea una fluidità che passa impercettibilmente da un aspetto colloquiale e dimesso ad un sottofondo musicale denso di elaborazione e raffinazione del linguaggio (si noti in tal  senso la sapiente cadenza ritmica e fonetica delle consonanze che conducono il testo verso la visione finale: agrapèd, grèpp, arguglédi, pigri).

Quasi in un senso d’incombenza imprevista, e con quella sospensione di fiato tipica degli esordi più riusciti che getta il lettore nel moto dei versi, l’incipit ci attrae nel testo; diveniamo i concittadini che possono riconoscere i luoghi familiari citati espressamente, anche quelli che forse sono esclusiva pertinenza del protagonista; percepiamo ed amplifichiamo l’imprecazione, come se camminassimo nel fango e la salita faticosa diviene un discreto, leggero cenno alle avversità quotidiane fino alla visione estatica delle pecore: totalmente incuranti del maltempo, anzi in perfetta comunione con esso e con la natura; ferme a raffigurare un paesaggio che sottolinea nuovamente l’estraneità del soggetto, ma anche la sua capacità di meravigliarsi.

Quando il cinema incontra la poesia: “Luci della città” – Charlie Chaplin (1931)

Penso che in questo film, che io ritengo uno dei più belli della storia del cinema, sia contenuta la scena più strettamente “poetica” che si possa immaginare; naturalmente, chiunque abbia un po’ di dimestichezza con il cinema, avrà già capito di quale scena parlo e perciò non sto certo a raccontarvela, ma mi limito a farvela rivedere, sicuro di fare cosa gradita a chi naviga nella magia della poesia.

https://www.youtube.com/watch?v=eNTvn6TTQZM

Una poesia che avrei voluto scrivere: “Oscillazione immobile” di Ghiannis Ritsos

In una delle più significative scene del film “Dead Poets Society” (L’attimo fuggente – di Peter Weir -1989), il preside della scuola, Mr. Nolan, dopo aver cacciato il prof. John Keating, ne prende il posto come insegnante e comincia a prodigarsi in uno dei più ridicoli, assurdi ed improbabili tentativi di spiegare “Che cos’è la poesia”, usando assi cartesiani e principi matematici o geometrici (chiamateli come volete).

Fortunatamente, ben 17 anni prima, c’era chi sapeva di cosa stesse parlando: Ghiannis Ritsos, nel 1972, scrive “Oscillazione immobile”, a mio parere il miglior tentativo mai riuscito di spiegare l’ispirazione poetica, senza enfasi, ma, come lui era uso fare, con una metafora rubata ad un apparente “scorcio” di vita quotidiana.

Credo di non aver bisogno di spiegarvi altro (altrimenti cado nella trappola di Mr. Nolan); leggete la poesia ed immergetevi per un attimo nella magia e nella fantasia del “nostro” Ghiannis.

Oscillazione immobile

Nella fretta di alzarsi per aprire la porta

rovesciò il cestino coi fili del cucito –

i rocchetti si sparpagliarono sotto il tavolo, sotto le sedie,

negli angoli più impensati, – uno, di un rosso sull’arancione,

dentro il vetro della lampada; uno viola

nel fondo dello specchio; quello là d’oro –

non aveva mai avuto un rocchetto d’oro – da dove salta fuori?

Provò a inginocchiarsi per raccoglierli a uno a uno e rimettere

tutto a posto

prima di aprire la porta. Non fece in tempo. Suonarono di

nuovo.

Rimase immobile, impotente, le mani lungo i fianchi.

Quando si ricordò di aprire, – non c’era più nessuno.

Così, dunque, la poesia? Esattamente così la poesia?

Ghiannis Ritsos – Poesie – 1972

Una poesia che avrei voluto scrivere: “Una domenica d’aprile” di Philip Larkin

Una domenica d’aprile

                        Una domenica d’aprile porta la neve

                        che rende sul susino verde il fiore,

                        non bianco. Un’ora o due, poi deve

                        sparire. Strano che io passi quelle ore

                        tra le credenze, spostando i vasi

                        di marmellata che hai fatto con la frutta

                        di questi alberi: tre quintali o quasi,

                        più che sufficienti per i tè di tutta

                        l’estate prossima, che ora non mangerai.

                        Dietro al vetro, sotto la plastica

                        i tuoi ultimi giorni d’estate, che mai

                        ritorneranno, estranei, dolci sono rimasti.

                                                     (trad. Nicola Gardini)

                                 An april sunday brings the snow

                          An april sunday brings the snow

                          making the blossom on the plum trees green,

                          not white. An hour or two, and it will go.

                          Strange that i spend that hour moving between

                          cupboard and cupboard, shifting the store

                          of jam you made of fruit from these same trees:

                          five loads – a hundred pounds or more –

                          more than enough for all next summer’s teas,

                          which now you will not sit and eat.

                          Behind the glass, under the cellophane,

                          remains your final summer – sweet

                          and meaningless, and not to come again.

Nel panorama tendenzialmente desolato, solitario ed estraneo dei testi di Philip Larkin, poeta inglese del novecento d’elevata e meritata notorietà in patria e poco presente in traduzione italiana, la scelta di questo testo pare parzialmente sovvertire il suo messaggio poetico preminente. Siamo qui di fronte ad una costruzione formale ricercata e di stampo classico (tre quartine a rime alternate) e ad un registro tematico che testimonia quella “dolcezza” citata dal poeta a proposito del suo primo periodo produttivo particolarmente legato alla scrittura di Yeats. Ma da quel “contrasto irrisolto di tutta la sua poesia matura: visione contro esperienza” sottolineato da Seamus Heaney in un saggio dedicato al poeta nasce in fondo anche questa lirica che, d’altronde, fa trasparire, seppur meno causticamente che in altre opere, “la dura colloquialità del linguaggio estremamente “moderno”, che s’inscrive in una cornice metricamente “classica”.” come osservato da Silvio Raffo.

Ad una prima lettura emerge il senso di perdita  d’una persona cara, della persona amata siamo portati a credere e certo l’impossibilità di un ritorno amplifica l’aspetto emozionale dei versi; dal contrasto fra assenza e presenza il testo trae la pulsione sensoriale che coinvolge il lettore, ma se quest’elemento sembra solo un’evidente e inevitabile deduzione occorre sottolineare che spesso, anche e soprattutto nei testi di Larkin a tematica familiare e sentimentale (“A mia moglie”, “Matrimoni” e “Amore” in cui si legge: “In amore la cosa più difficile/ è essere egoisti a sufficienza,”) emerge, o a volte resta in sottofondo ma percettibile, la sensazione  che l’ambito più adatto al poeta sia, come scritto ne “La compagnia migliore”, la “solitudine, è lei che mi sostiene/ nel suo palmo gigante; e come attinia/ o semplice lumaca, piano piano/ lì si schiude ed emerge ciò ch’io sono.” Pare, in tal senso, di vedere il poeta come riflesso in uno specchio, nella sua attività di bibliotecario che mai abbandonò, immerso nei libri che pudicamente gli garantirono l’intimità e al contempo un contatto col mondo esterno in cui poter scegliere quando e quanto parteciparvi.

La poesia esordisce con un evento almeno parzialmente insolito, non a caso sorprendente: una nevicata primaverile ed il naturale colore del fiore del susino, bianco, si confonde e quasi si perde lasciando, dove i fiocchi meno attecchiscono, il verde delle foglie che nascendo in questa specie dopo la fioritura paiono sostituirla; la caducità dell’evento (“un’ora o due, poi deve/ sparire”) diviene simbolo di quella  umana come trattenuta dal poeta nell’atto di spostare i vasi di marmellata “tra le credenze” con la sottolineatura della futilità dei gesti quotidiani esemplificata nel testo originale da “or more” quasi detto a fil di fiato: “o più” che nella traduzione proposta, previa inversione dell’entità della scorta, diviene “o quasi” in parte perdendo il senso aleatorio del lavoro che sta a monte (la versione italiana tende ad imporre e ad ipotizzare verificato il peso, mentre il testo originale sottolinea l’inutilità di quantificarlo). Quelle provviste da gustare in un futuro a portata di mano, l’estate ancora da venire, e proprio per tale prossimità apparentemente da vivere conservano di chi è scomparso un semplice elemento di vita quotidiana; però schermato, visibile e intangibile, protetto ma distante; eppure i giorni passati rimangono anche se nella consapevolezza, così coerente al normale scorrere della vita, di non avere nulla di particolare: per quanto dolce, in senso semantico anche legata alla lavorazione dei frutti, l’ultima estate appare “meaningless”, più che “estranea” insignificante.

Nella presentazione così diretta e senza filtri, quasi senza speranza che recupera uno dei registri tipici dell’autore l’elemento non tanto consolatorio, ma destinato ad invertire il senso apparente del messaggio è proprio nell’introspezione personale, nella quotidianità più ripetitiva e nella consapevolezza che in quella (e non nella ricerca di un momento preconfezionato da cristallizzare nella memoria e custodire come un gioiello da collezione) può realizzarsi il senso compiuto di un’esistenza: puro e sincero cammino compiuto a passi anche incerti, ma personali e moto vitale affiancato ad altre vite più o meno intrecciate per scelta o casualità.

                                                                                 (Mauro De Maria)