Punta secca

Sei magra e lunga
eppure hai tanta forza plastica
nel corpo gentile
che se abbandoni i gomiti sul pozzo
o contro il muro
del cortile
il bel corpo rovescio
serrati gli occhi
strette le labbra sciolti i ginocchi
con quell’uncino di ricci
nel mezzo della fronte e ad un capriccio
improvviso ti distacchi
t’impenni e via saetti come da fionda
su quegli alti tuoi tacchi
di stella che nel sole
quasi non ti si vede
più tanto sei bionda;
si può giurar per certo
che tu con quel tuo premer duro
un incavo hai aperto
 nel docile marmo e nel muro.
Attacchi d’ali strappate
ti palpitan le reni;
così sottile e senza seni
li hai tutti nei ginocchi.
Ma l’orchidea tu l’hai negli occhi.

L’esordio poetico di Corrado Govoni è folgorante: nel 1903, a 19 anni, pubblica la raccolta “Le Fiale” seguita dopo pochi mesi da “Armonia in grigio et in silenzio”; è l’inizio di una convivenza coi versi che, pur attraversando diverse stagioni stilistiche a cui il poeta aderirà, manterrà sempre come elemento portante il culto della parola secondo una sua stessa definizione di poesia: “sentimento espresso con parole calde, fantastiche, colorate, musicali”. Il suo lessico ricercatissimo, soprattutto nella sua prima stagione produttiva che lui stesso riassumerà curando l’antologia “Poesie scelte” (1918), straripa nella sovrapposizione d’immagini, in una sorta di accumulazione progressiva e ridondante comunque in grado di portare in risonanza le emozioni, come fossero corde d’uno strumento e sfruttando fonti d’ogni tipo: “una carovana che porta indifferentemente materiali rari e preziosi e oggetti comuni e banali o fin di scarto” dirà Sinisgalli. Tale analisi è avvalorata dalla grande influenza esercitata dalla ricchezza delle immagini di Govoni su diversi poeti del novecento, anche quelli destinati a divenire maestri riconosciuti, quali Ungaretti e Montale (bastino a scopo dimostrativo della sua capacità evocativa un paio d’impressioni primaverili: “le rondini turbinavan come spole/ canore pel telaio grande dell’azzurro” o ancora “le rondini sui fili come note nel rigo”).

Nel tempo la sua ricerca metrica lo ha portato ad allontanarsi dalle forme chiuse dei primi lavori per sperimentare la stagione futurista e, fra i primi, il verso libero, sfrondando successivamente i testi e comunque recuperando un’impostazione nel solco della tradizione classica che non ha mai abbandonato.

“Punta secca” è una poesia inserita nella raccolta “Canzoni a bocca chiusa” del 1938.

Il verso si frammenta e il lessico diviene più immediato, il ritratto della protagonista del testo è costruito attraverso una cadenza ritmica e musicale che riflette la ricerca stilistica del poeta e, anche in tal caso, la sua tipica predilezione per  la progressiva sovrapposizione d’immagini; ma ancora più raffinata, con frenate e apparenti ristagni di suono che si schiudono in improvvise ripartenze. L’intera prima parte del testo consta di un unico periodo che, tramite i cambi ritmici citati, lascia il lettore col fiato sospeso attraendolo in un vortice fino al punto fermo; e qui si scioglie la forza creativa di Govoni, nell’immagine del muro modellato e scavato dal semplice gesto della donna che vi appoggia i gomiti.

Ma forse l’esercizio sistematico alla scrittura che per anni il poeta ha praticato ha generato nel testo un’incrinatura imprevista: la parte finale pare un poco forzata e allenta la tensione emotiva crescente fino al punto che chiude il primo periodo; questa scelta che tende a riportare a terra il testo non mina comunque la luce emotiva che, nel complesso, lo pervade, velandolo d’una sotterranea malinconia e in tal senso facendo eco a ciò che Betocchi scrisse parlando dei versi di questo autore, trovando sempre in Govoni il “rimpianto di una felicità dalla quale si sente escluso”.

                                                                          (Mauro De Maria)

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