Mòl
E par la strèda u s’è nuvlé, a San Bèrtal
l’à tach a pióv, pedèla po’, i calzéun,
ch’a n gn’éva péns, sl’untómm, ma la cadéina,
a m séra sasiné,
e mòl pléin, i cavéll, a la sintéva
culè zo ma la còppa, e la caméisa
sla pèla, giaza,
me Pòzz Lòngh a so smòunt, andéva so
a testa basa, agrapèd me manubrio,
tra ’l piscòlli, e una mèlta,
mo butéi un pó ’d brèssa d’ogni tènt!
a biastméva, ò alzè i ócc, e ò vést se grèpp
dla Nina ad Scòcia, sòtta l’aqua, al stéva
alè arguglédi, dal pigri, tl’érba, férmi, cmè di sas
Bagnato
E per la strada s’è annuvolato, a San Bartolo
ha cominciato a piovere, pedala pure, i calzoni,
che non ci avevo pensato, con l’unto, alla catena,
mi ero rovinato,
e mollo fradicio, i capelli, la sentivo
colar giù alla nuca, e la camicia
sulla pelle, ghiaccia,
al Pozzo Lungo sono sceso, andavo su
a testa bassa, aggrappato al manubrio,
tra le pozzanghere, e un fango,
ma buttateci un po’ di ghiaia ogni tanto!
bestemmiavo, ho alzato gli occhi, e ho visto sul greppo
della Nina di Scòcia, sotto l’acqua, stavano
lí accoccolate,
delle pecore, nell’erba, ferme, come dei sassi.
(versione in lingua dell’autore)
Raffaello Baldini, con Tonino Guerra e Nino Pedretti, completa la triade di grandi poeti dialettali nati negli anni venti del secolo scorso a Sant’Arcangelo di Romagna; e ne è il vertice assoluto. Diverse sono ormai le testimonianze in tal senso tendenti anche a sovvertire il pregiudizio d’una poesia minore se al posto della lingua si predilige il dialetto; spesso gli autori che scelgono tale forma espressiva utilizzano un idioma molto circoscritto, legato alle proprie radici ma è come se, nelle progressive varianti che mano a mano che ci si allontana dalla terra d’origine di quel linguaggio si diversificano poco a poco, questo inglobasse luoghi e tempi limitrofi e via via più lontani a costituire un discorso comune e universale. Nel caso di Baldini è evidente che la tipologia linguistica, oltre a costituire una sorta di connessione più diretta coi personaggi comuni che abitano i suoi versi, è anche un elemento non solo di preservazione della memoria, come semplicisticamente potrebbe sembrare a leggere le sue dichiarazioni, ma anche di precisione percettiva e divulgativa: “ancora qualche decennio fa il dialetto del mio paese non aveva i nomi per indicare due stagioni, la primavera e l’autunno. La primavera era “la stasòun bóna”, la stagione buona, l’autunno era “la rinfrischèda”, la rinfrescata, o anche “pr’e’frèsch”, per il fresco.
Oggi che si può dire “primavera” e “autónn”, il dialetto, paradossalmente, è un po’ più povero”. Tale esattezza descrittiva, secondo una felice intuizione di Mengaldo,
visualizza “la realtà di un luogo in un tempo preciso (che sembra contenere in sé naturalmente il passato)”.
La poesia di Baldini tende ad esulare dall’ambito più tipicamente connesso ai versi dialettali ove predominano quadri descrittivi, fotografici che tendono a fermare l’immagine con un effetto nostalgico protettivo; nel suo caso tali elementi, pur presenti, investono l’attualità e spesso rivelano il volto nascosto ed intimo di cose e persone. Nei testi, in netta prevalenza sotto forma di monologhi recitati da persone reali o immaginarie, non solo l’io parlante diviene il poeta stesso ma anche ognuno di noi: nelle debolezze, nelle idiosincrasie, negli errori commessi, nei desideri rimasti inespressi, nelle occasioni perdute, nei silenzi che predominano sui chiarimenti e in molto altro ancora tutti siamo ritratti e ci riconosciamo. “Protagonista delle storie di Baldini […] è una figura assolutamente comune, spesso perfettamente socializzata: uno come tanti, apparentemente normale, che solo nel privato paga il suo tributo di fissazioni” dice Brevini nella prefazione di “Furistír”, il libro da cui è tratta la poesia proposta; ma tale privato si riversa, paradossalmente, dalla voce interiore a quella espressa sulla carta rendendo manifesto anche ciò che forse non si vorrebbe. Il titolo della raccolta citata evidenzia, inoltre, una delle tematiche più tipiche e care al poeta: la condizione di estraneità dell’individuo al mondo, altrui e proprio, che al contempo ritrae con una precisione senza uguali.
Anche nella poesia scelta per questa lettura, in linea con il costante approccio stilistico dell’autore che usa il verso libero, predominano gli endecasillabi. È stato più volte notato che la sua metrica, libera ma appunto ricercata e precisa, svolge una sorta di funzione di contrappeso della sintassi sovrabbondante e caotica che dà voce ai suoi personaggi; a volte pare che la rima venga volontariamente evitata, ma il lavoro sul verso crea una fluidità che passa impercettibilmente da un aspetto colloquiale e dimesso ad un sottofondo musicale denso di elaborazione e raffinazione del linguaggio (si noti in tal senso la sapiente cadenza ritmica e fonetica delle consonanze che conducono il testo verso la visione finale: agrapèd, grèpp, arguglédi, pigri).
Quasi in un senso d’incombenza imprevista, e con quella sospensione di fiato tipica degli esordi più riusciti che getta il lettore nel moto dei versi, l’incipit ci attrae nel testo; diveniamo i concittadini che possono riconoscere i luoghi familiari citati espressamente, anche quelli che forse sono esclusiva pertinenza del protagonista; percepiamo ed amplifichiamo l’imprecazione, come se camminassimo nel fango e la salita faticosa diviene un discreto, leggero cenno alle avversità quotidiane fino alla visione estatica delle pecore: totalmente incuranti del maltempo, anzi in perfetta comunione con esso e con la natura; ferme a raffigurare un paesaggio che sottolinea nuovamente l’estraneità del soggetto, ma anche la sua capacità di meravigliarsi.