Una poesia che avrei voluto scrivere: “Una domenica d’aprile” di Philip Larkin

Una domenica d’aprile

                        Una domenica d’aprile porta la neve

                        che rende sul susino verde il fiore,

                        non bianco. Un’ora o due, poi deve

                        sparire. Strano che io passi quelle ore

                        tra le credenze, spostando i vasi

                        di marmellata che hai fatto con la frutta

                        di questi alberi: tre quintali o quasi,

                        più che sufficienti per i tè di tutta

                        l’estate prossima, che ora non mangerai.

                        Dietro al vetro, sotto la plastica

                        i tuoi ultimi giorni d’estate, che mai

                        ritorneranno, estranei, dolci sono rimasti.

                                                     (trad. Nicola Gardini)

                                 An april sunday brings the snow

                          An april sunday brings the snow

                          making the blossom on the plum trees green,

                          not white. An hour or two, and it will go.

                          Strange that i spend that hour moving between

                          cupboard and cupboard, shifting the store

                          of jam you made of fruit from these same trees:

                          five loads – a hundred pounds or more –

                          more than enough for all next summer’s teas,

                          which now you will not sit and eat.

                          Behind the glass, under the cellophane,

                          remains your final summer – sweet

                          and meaningless, and not to come again.

Nel panorama tendenzialmente desolato, solitario ed estraneo dei testi di Philip Larkin, poeta inglese del novecento d’elevata e meritata notorietà in patria e poco presente in traduzione italiana, la scelta di questo testo pare parzialmente sovvertire il suo messaggio poetico preminente. Siamo qui di fronte ad una costruzione formale ricercata e di stampo classico (tre quartine a rime alternate) e ad un registro tematico che testimonia quella “dolcezza” citata dal poeta a proposito del suo primo periodo produttivo particolarmente legato alla scrittura di Yeats. Ma da quel “contrasto irrisolto di tutta la sua poesia matura: visione contro esperienza” sottolineato da Seamus Heaney in un saggio dedicato al poeta nasce in fondo anche questa lirica che, d’altronde, fa trasparire, seppur meno causticamente che in altre opere, “la dura colloquialità del linguaggio estremamente “moderno”, che s’inscrive in una cornice metricamente “classica”.” come osservato da Silvio Raffo.

Ad una prima lettura emerge il senso di perdita  d’una persona cara, della persona amata siamo portati a credere e certo l’impossibilità di un ritorno amplifica l’aspetto emozionale dei versi; dal contrasto fra assenza e presenza il testo trae la pulsione sensoriale che coinvolge il lettore, ma se quest’elemento sembra solo un’evidente e inevitabile deduzione occorre sottolineare che spesso, anche e soprattutto nei testi di Larkin a tematica familiare e sentimentale (“A mia moglie”, “Matrimoni” e “Amore” in cui si legge: “In amore la cosa più difficile/ è essere egoisti a sufficienza,”) emerge, o a volte resta in sottofondo ma percettibile, la sensazione  che l’ambito più adatto al poeta sia, come scritto ne “La compagnia migliore”, la “solitudine, è lei che mi sostiene/ nel suo palmo gigante; e come attinia/ o semplice lumaca, piano piano/ lì si schiude ed emerge ciò ch’io sono.” Pare, in tal senso, di vedere il poeta come riflesso in uno specchio, nella sua attività di bibliotecario che mai abbandonò, immerso nei libri che pudicamente gli garantirono l’intimità e al contempo un contatto col mondo esterno in cui poter scegliere quando e quanto parteciparvi.

La poesia esordisce con un evento almeno parzialmente insolito, non a caso sorprendente: una nevicata primaverile ed il naturale colore del fiore del susino, bianco, si confonde e quasi si perde lasciando, dove i fiocchi meno attecchiscono, il verde delle foglie che nascendo in questa specie dopo la fioritura paiono sostituirla; la caducità dell’evento (“un’ora o due, poi deve/ sparire”) diviene simbolo di quella  umana come trattenuta dal poeta nell’atto di spostare i vasi di marmellata “tra le credenze” con la sottolineatura della futilità dei gesti quotidiani esemplificata nel testo originale da “or more” quasi detto a fil di fiato: “o più” che nella traduzione proposta, previa inversione dell’entità della scorta, diviene “o quasi” in parte perdendo il senso aleatorio del lavoro che sta a monte (la versione italiana tende ad imporre e ad ipotizzare verificato il peso, mentre il testo originale sottolinea l’inutilità di quantificarlo). Quelle provviste da gustare in un futuro a portata di mano, l’estate ancora da venire, e proprio per tale prossimità apparentemente da vivere conservano di chi è scomparso un semplice elemento di vita quotidiana; però schermato, visibile e intangibile, protetto ma distante; eppure i giorni passati rimangono anche se nella consapevolezza, così coerente al normale scorrere della vita, di non avere nulla di particolare: per quanto dolce, in senso semantico anche legata alla lavorazione dei frutti, l’ultima estate appare “meaningless”, più che “estranea” insignificante.

Nella presentazione così diretta e senza filtri, quasi senza speranza che recupera uno dei registri tipici dell’autore l’elemento non tanto consolatorio, ma destinato ad invertire il senso apparente del messaggio è proprio nell’introspezione personale, nella quotidianità più ripetitiva e nella consapevolezza che in quella (e non nella ricerca di un momento preconfezionato da cristallizzare nella memoria e custodire come un gioiello da collezione) può realizzarsi il senso compiuto di un’esistenza: puro e sincero cammino compiuto a passi anche incerti, ma personali e moto vitale affiancato ad altre vite più o meno intrecciate per scelta o casualità.

                                                                                 (Mauro De Maria)