Per chi ama immergersi nella lettura e in quella poetica in particolare farsi accompagnare all’interno dell’opera dall’autore può essere un’esperienza unica. Similmente anche chi si dedica con amore sincero all’approfondimento dei testi può divenire, onere e al contempo privilegio, guida per altri lettori; riuscire a coinvolgerli è funzione diretta della passione con cui chi si prefigge tale obiettivo entra nel mondo delle parole. Sebbene sia improbo o impossibile identificare una motivazione unica a compiere tale viaggio (senza trascurare quella puramente estetica, sempre comunque mediata e orientata a suscitare emozioni) forse scoprire tratti della propria personalità e delle proprie esperienze in ciò che si legge è uno stimolo, per quanto a volte inconscio, che alimenta la lettura e il costante, dinamico rapporto tra scrittore e lettore.
In tale ottica si possono approfondire due testi di poeti italiani del novecento che ne rispecchiano il vissuto privato tramite l’assimilazione di fonti letterarie (e quindi, a maggior ragione, testimoniano la potenziale intimità dei libri) e confermano l’orientamento degli autori, poeti e non, di appoggiarsi, utilizzare, trasformare ed esplicitare direttamente fonti letterarie nelle loro opere, quasi mai occultando, quasi sempre ponendo in evidenza il testo originario in una sorta di continuo, inesausto e imperituro gioco di rimandi, destinato a sua volta ad essere ripreso da autori futuri
ancora ignoti.
“Lo specchio” di Umberto Saba.
Umberto Saba nacque a Trieste nel 1883. La sua vita e la sua poesia furono fortemente condizionate dalle esperienze private; il padre abbandonò la madre ancor prima della nascita del poeta che adottò lo pseudonimo di Saba, rifiutando il cognome paterno. Pubblicò inizialmente senza fortuna alcune raccolte, anche sotto l’egida della libreria antiquaria “antica e moderna” di Trieste di cui divenne proprietario; già nel 1921 organizzò i suoi versi in una prima versione del “Canzoniere” aggiornandola continuamente e facendovi confluire tutte le sue raccolte poetiche. Morì a Gorizia nel 1957.
Come ha scritto Mengaldo “figura fondamentale della poesia di Saba è la tendenziale coincidenza fra antico e nuovo…il senso del dispiegarsi dell’esperienza individuale come ripetizione di un’esperienza già vissuta, individualmente nel proprio passato…il senso della vita come flusso unitario”, ecco dunque una motivazione inoppugnabile ad unire sotto un’unica veste e in un unico testo i suoi scritti poetici; anche Sanguineti ha sottolineato che il tema dominante di Saba è la “celebrazione del quotidiano, nella sua dignità elementare e… nel suo naturale decoro”. Malgrado alcuni critici gli abbiano voluto assegnare un ruolo di precursore della principale linea della poesia italiana del 900, segnatamente nell’aspetto innovativo della triade Cardarelli-Ungaretti-Montale, la sua voce poetica, anche funzionalmente alla propria storia e alla propria collocazione geografica, appare tendenzialmente lontana da quel tipo di poesia, a parte, forse, le ultime composizioni che tendono ad avvicinarlo a certi elementi stilistici, in particolare montaliani.
Già nel 1911 in un saggio intitolato “Quello che resta da fare ai poeti” rifiutato inizialmente e pubblicato solo nel 1959, Saba dichiarava il proprio intento: “ai poeti resta da fare la poesia onesta” specificava sottolineando gli elementi essenziali della sua poetica, ossia la concordanza fra la poesia e la vita e la funzione conoscitiva della prima, rifiutando altresì quella che definiva poesia disonesta, ovvero legata al culto del verso fine a sé stesso cui subordinare, eventualmente, anche la verità. Anche se, occorre dirlo, da cultore della parola più che dissentire dalla ricerca estetica come finalità lirica denunciava la forzata costruzione formale che in realtà, in prima istanza, tradisce proprio il valore della forma.
Lo specchio
Guardo un piccolo specchio incorniciato
di nero,
già quasi antico, semplice e severo
a un tempo.
Una fanciulla
– nude l’esili braccia – gli è seduta
di contro. Ed un ricordo
d’altri tempi mi viene, mentre in quello
seguo le sue movenze, e come al capo
porta le braccia, e come ai suoi capelli
rende la forma voluta. E il ricordo
narro a mia figlia, per diletto:
«Un giorno
fu, che tornavo di scuola. Il maestro
ci aveva fatta ad alta voce, e come
allora usava, la lettura. Immagina
un bambino che va da solo in America,
solo a trovare sua madre. E la trova
sí, ma morente. Che se appena un attimo
ritardava, era morta. Io non ti dico
come a casa giungessi. E quando, vinto
dai repressi singhiozzi, apro la porta
e volo incontro a mia madre, lei vedo
al tuo specchio seduta, nello specchio
il primo suo capello bianco… Ed ecco
tu ridi adesso, e anch’io ne rido, o quasi,
ma non quel giorno o quelli poi».
«Non rido,
babbo, di te – mi risponde; – ma tanto
s’era a quei tempi, o eri tu solo tanto
stupido?»
E getta
le braccia intorno al mio collo, e mi bacia;
e dallo specchio e da me s’allontana.
Questa poesia è inserita nella raccolta “Il piccolo Berto” (1929-1931) confluita, come detto, nel Canzoniere. Per quanto il testo sia molto discorsivo ed intelligibile è tuttavia ben lontano dalla tendenza a simulare la prosa anche se a prima vista si potrebbe essere tratti in inganno; la musica interna aiuta subito a fugare i dubbi e così la metrica che pur in forma di versi liberi vede la netta predominanza degli endecasillabi. Già lo stesso Saba in “Storia e cronistoria del canzoniere” sottolineava “il verso appena sollevato da terra, sollevato però quel tanto che basta a separarlo nettamente dalla prosa.” e in un altro passo, analogamente, confutava tenacemente i critici che trovarono le sue poesie contaminate da elementi prosastici.
“Il senso del tempo che passa, dei sentimenti che mutano” (Saba, “Storia e cronistoria del Canzoniere”) o anche, provocatoriamente, che non mutano sono l’elemento portante della poesia evidenziati attraverso lo specchio davanti al quale siede la figlia del poeta, rimirandosi e forse fantasticando; a quella vista riemerge un ricordo infantile, di quando a scuola il maestro lesse “Dagli appennini alle Ande” tratto da “Cuore” di De Amicis (storia di una madre che parte da Genova per recarsi a servizio a Buenos Aires in cerca di fortuna; dopo un anno giunge ai familiari una lettera che la rivela malata, poi più nulla. Il figlio più piccolo, 13 anni, parte alla sua ricerca vagando prima a Buenos Aires e poi seguendone le tracce fino a Cordova. La madre affetta da un’ernia strozzata e senza più notizie dei suoi cari rifiuta di farsi operare fino a che la vista del figlio, giunto da lei, la convince e la porta alla salvezza). Trafelato il poeta bambino racconta alla figlia di essere giunto a casa per rassicurarsi della presenza della madre trovandola davanti a quello stesso specchio che, testimone del tempo, riflette il primo capello bianco della donna. La figlia ride nella sua spensierata gioventù di quel ricordo chiedendosi come il poeta potesse essere così ingenuo e quasi con noncuranza si alza dallo specchio, bacia il padre “e dallo specchio e da me s’allontana”. In quest’immagine pulsa una trasposizione concettuale che i lettori possono rivivere attraverso il poeta e, tramite la sua voce, percepire la mediazione di una fonte letteraria.
“Nella luce agitata ah la lettura” di Giorgio Caproni.
Giorgio Caproni nacque a Livorno nel 1912 e morì a Roma nel 1990. Fra le varie occupazioni ed interessi che hanno preceduto la sua preminente attività di maestro elementare spiccano il suo amore ed il suo estro per il violino che forse, da subito, lo hanno indotto ad una ricerca creativa a predominante impatto musicale inizialmente orientata anche a strutture metriche di apparente semplicità cantabile, forme sette-ottocentesche addirittura che ad un più attento esame evidenziano un rimando formale nell’organizzazione dei versi estremamente rigoroso, sviluppatosi poi in una stratificazione stilistica evidenziante un’altissima maestria nella riproposizione della forma sonetto. L’ambito musicale della sua ricerca lo indusse ad identificare nella parola “una serie pressoché infinita di significati “armonici”(la definizione è dello stesso Caproni). Mengaldo, in merito ai suoi sonetti ne esalta la ”unica gittata o presa di fiato”; emblematici restano certi suoi abbrivi, già notati da Pasolini (“Le carrette del latte ahi mentre il sole/ sta per pungere i cani!”).
Fin dalle sue prime raccolte (“Come un’allegoria”1936, “Ballo a Fontanigorda”1938, “Finzioni”1941, “Cronistoria”1943) si ritrovano i temi portanti della sua produzione letteraria, riproposti anche nelle opere successive: la madre, la città, il viaggio.
La figura della madre (Anna Picchi, Annina nei testi) è il tema centrale de “Il seme del piangere”(citazione dantesca, dal Purgatorio); nei testi di questa raccolta Mengaldo nota come ad eccezione di Saba “nessun poeta del nostro novecento ha saputo rappresentare con altrettanta immedesimazione e felicità ambienti popolari, paesaggi urbani colti nelle loro ore topiche…e quasi nei loro odori e sapori”. Nelle ultime opere lo stile si fa più asciutto, epigrammatico ed emerge il tema della progressiva perdita d’identità, senza che si possa, in qualche modo, separare l’io da altre figure replicanti: “Così si forma un cerchio/ dove l’inseguito insegue/ il suo inseguitore./ Dove non si può dire…chi sia il perseguitato/ e chi il persecutore”.
Nella luce agitata ah la lettura
d’Orlando verso l’Isola del Pianto.
Sottovetro tremava la tua pura
grazia – la rosa accesa dallo schianto
mite d’amore, nella tua figura
alzata e irraggiungibile. E a che incanto
ti vedevo legata, e che premura
mi conquideva, se a scioglierti intanto
era giunto allo scoglio il tuo Ruggero?
Oh un uomo no, ma l’angelo sbrigliato
che ti perseguirà fino al deserto
pieno, fino al tuo sogno sperperato
sui binari, ove fuggi il più leggero
destino – e Orlando che non t’ha scoperto.
Questa poesia è inserita nella raccolta “Cronistoria” e fa parte della sezione “Sonetti dell’anniversario”: diciotto componimenti proposti in tale forma chiusa e scritti in ricordo celebrativo della prematura scomparsa della fidanzata Olga Franzoni.
Elemento portante della lirica è la sovrapposizione della figura del poeta con quella di Orlando le cui gesta il protagonista e la musa stanno leggendo (perfetto esempio a supporto della lettura in senso lato, per altro esplicitamente citata alla fine del primo verso). Ma, come nel poema, il protagonista giunge tardi perché intanto il Ruggero della musa l’ha preceduto (Angelica, protagonista del poema ”Orlando furioso” di Ludovico Ariosto, pubblicato nella versione definitiva nel 1532, viene promessa da Carlo, a capo dell’esercito cristiano, a chi, fra Orlando e Rinaldo, sia in grado di distinguersi maggiormente in battaglia. In realtà la fanciulla per buona parte dell’opera fugge ogni spasimante; l’episodio citato nel sonetto di Caproni è quello in cui Angelica, legata ad un masso all’Isola del Pianto, è offerta all’orca marina per essere divorata. A scioglierla giunge a cavallo dell’ippogrifo Ruggero, mentre Orlando giungerà successivamente a liberare, destinata allo stesso scopo, Olimpia e ucciderà il mostro. Angelica, grazie ad un anello magico scomparirà dinanzi a Ruggero che la insidia nel bosco e s’innamorerà poi, ricambiata, di Medoro).
Nel sonetto il poeta sovrappone tale episodio letterario all’esperienza personale; in realtà, rispetto al potenziale tema dell’amore non corrisposto che a una prima lettura sembra di poter identificare, in questo caso chi rapisce l’amata non è un uomo ma l’angelo della morte, dichiarato al verso 10 (“l’angelo sbrigliato” che richiama il “suono…slegato dal cielo” de “La primavera hitleriana” di Montale). Restano la perdita e la stratificazione di diversi piani di lettura e l’amplificazione del rimando letterario in una sorta di eco creativo di testi preesistenti: dalla scintilla originaria dell’intero capolavoro di Ariosto in cui l’incipit “Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori,/ le cortesie, l’audaci imprese io canto,” è un diretto rimando al dantesco “le donne e’cavalier, li affanni e li agi/ che ne’nvogliava amore e cortesia”, all’episodio di Perseo che giunge su Pegaso a liberare Andromeda, legata ed offerta al mostro marino secondo la narrazione di Ovidio nelle “Metamorfosi”: letteratura come rivisitazione continua delle medesime esperienze ed autogenerante.
(Mauro De Maria)